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28 dicembre 2006

Paris c'est toujours Paris (e Milano è sempre Milano)


Avverto chi è entrato qui per la prima volta che questo NON è il sito di "Turisti per caso". Inoltre, avverto i gentili turisti di non pretendere di entrare al Louvre a Natale e neppure di Martedì.

Il viaggio per immagini è già pronto sul solito link guccia FOTO ora cerchiamo di pubblicare il viaggio attraverso le parole anche se, ormai, 8 Gennaio, mi sembra di essere tornata da decenni. Abbiamo non-visto talmente tante cose...
L'altro ieri ho lasciato il mio bel golfo sormontato dal faro che mi ha sempre ricordato un polmone, il polmone della mia città, che si contrae in sincrono col mio respiro. Ho osservato il Duomo alzarsi sulle punte nell'estremo tentativo di non farsi soffocare dalle costruzioni del nuovo porticciolo turistico, dopo essere riuscito a dominare persino il porto commerciale. Che peccato sarebbe non poterlo più vedere arrivando col treno, essendosi appena abbandonati alle spalle le dolci colline marchigiane illuminate dalla forza suicida del sole di dicembre. Il mio treno, però, andava in direzione opposta ed erano già solo ricordo quelle belle giornate limpide d'inizio d'anno che mi permettevano di vedere le punte innevate dei sibillini dalla terrazza di casa. Ho visto quindi sparire il mio golfo nella foschia fino a farsi mare.
Ma questo è un altro viaggio, sempre il solito e ogni volta diverso.
Abbiamo preso il treno per Parigi - Bercy alle 22:59 del 23 Dicembre allora 2006. Il capocarrozza ci ha addirittura accolto sulla pensilina (e non era un treno francese!), ci ha ritirato i documenti, chiesto cosa volevamo mangiare e poi ci ha mostrato le cuccette. L'importante è non soffrire di claustrofobia, per il resto non è male non-dormire sballottati dai binari e dal macchinista sportivo. Non vi dico come mi sentivo esaltata da tutto, ma soprattutto dal lavandino apribile e dal vaso da notte... immagino che sicuramente qualcuno avrà tentato di trattenere l'urina per spargerla appena entrati in territorio francese.
Facciamo colazione in camera mentre dal finestrino sfilano fiumi e paesini dalle ricche luminarie ancora avvolti dalla nebbia. All'improvviso (improvvisamente in quanto eravamo troppo impegnati a cercare di trasformare i letti in sedili) la periferia di Parigi che mi scopre col croissant ancora in bocca.
La prima informazione la chiediamo ad una ragazza che si è sistemata davanti la faccia un cartello con su scritto "parlo italiano" e il sorriso che ci rivolge è allegato direttamente al pezzo di cartone esposto sul vetro.
Riusciamo a procurarci due carte Paris-visite valide per tre giorni di scorrazzate folli in metropolitana (metropolitana che conta circa 25 linee 0_0). Sono talmente felice che fotografo persino le strade deserte di quella che è la vigilia di Natale parigina. Alcuni pompieri hanno parcheggiato il camion davanti la stazione di Montparnasse e hanno organizzato una partita ad Hockey. Approdiamo all'Hotel des Invalides dopo che Gabry, con mia immensa meraviglia, ha già perfettamente imparato a muoversi nella capitale... sarà forse perché proviene dalla piccola capitale... comunque riesce, non mi spiego come, a comunicare in francese e a portarci sempre esattamente dove desideriamo andare. La magnificenza del sepolcro di questo veramente basso (perlomeno di statura) personaggio non ci stupisce più di tanto e, adeguatamente schivato il museo dell'armeria, siamo già a Notre Dame, ovviamente non prima che Gabriele abbia dato indicazioni ad un anziano parigino... ammetto che questa cosa cominciava un pochino a darmi sui nervi!
Avvolta in un piumino con cappuccio esquimese osservo il classico signore delle briciole che attira i poveri malcapitati turisti con la scusa di poter fare una foto con migliaia di volatili addosso... che poi sono gli stessi bolognesi che se un piccione gli si avvicina poco poco al piede in Piazza Maggiore lo mutilano. Invece li guardo sorridere felici delle probabili malattie acquisite come pure degli escrementi lasciatigli addosso dagli animali, che tirano via con un sorriso e un fazzoletto usa e getta. Comunque, lo ammetto, la cosa fa atmosfera. La vista della cattedrale è in parte coperta da un enorme albero natalizio e io mi spreco in fotografie-cartolina. Ci facciamo persino scattare una foto insieme e ci tagliano via i piedi senza pietà. All'interno della cattedrale è in corso una molto scenica messa di Natale, si respira puro incenso, l'archittettura imponente è (poco) illuminata da vetrate coloratissime che quasi stonano col grigio-oro dominante.
In un attimo ci rapisce il dedalo di viuzze dai negozi addobbatissimi del quartiere latino dove la fame ci impone di entrare in un locale Greco-arabo-francese dove riempirci lo stomaco fino all'inverosimile con una baguette ripiena di kebab e... patatine fritte! Dal ponte scopriamo una Senna trafficata da battelli-ristorante.
Andiamo ad appoggiare i bagagli in albergo. La camera si trova in Boulevard Sebastopol 112 ed è al sesto piano di una tipica via del Marais... camini fin dove arriva lo sguardo.
Nel tardo pomeriggio affrontiamo la scalinata del Sacre Coeur per aspettare il tramonto lungo le finte viuzze di Montmatre, quartiere dei ritrattisti che cercano di attirarci coi più melensi complimenti. Tutto sommato non ci dispiace affatto aver deciso di visitare anche questo quartiere tanto snobbato dai viaggiatori seri e non ci dispiace essere entrati in un bistrot e di aver sorseggiato vin chaud mentre fuori andava facendosi notte. Il mio fisico ormai congelato è rinato davanti ai fumi e la lingua si è sciolta entusiasta, ho mandato ridicoli sms a chiunque avessi in rubrica. Se di visita trash si tratta non possiamo esimerci dal passare davanti al moulin rouge pieno di cretini, come me, che lo fotografano. Ceniamo al quartiere latino (non andate al Bistrot 30): zuppa di cipolle insapore, fettine fritte con sopra crema di funghi e spezzatino accompagnato da pastasciutta scotta e scondita... e si che in Alsazia avevamo mangiato benissimo.
La mattina seguente ci alziamo curiosissimi di testare la colazione abbondantissima dell'albergo e la testiamo eccome!
Il Louvre risulta essere chiuso e ci troviamo senza meta, convinti di passare tutta la giornata lì dentro. Mi si ibernano le mani mentre passeggiamo per i giardini della Touilleries fino a piazza della Concorde. Ci becchiamo un'altra messa di Natale alla Madeleine. Decidiamo di sostituire il Louvre con il centro Pompidou e ne restiamo davvero affascinati, un bravo a Renzo Piano come pure agli organizzatori della mostra sul montaggio cinematografico... ci godiamo Léger, Man Ray, Moholy Nagy... Sperimentiamo l'ebrezza di comprare cinque francobolli alla macchina automatica delle poste. Pranziamo con ottime tartine e golosissimi caffè viennesi. Il giro trash alla torre Eiffel by night non si rivela poi così trash, con la torre avvolta dalla nebbia e la punta che vi spariva in mezzo tra un cielo grigio da neve e tutto illuminato di luce arancione. Prima di addormentarci guardiamo Harry Potter in francese alla TV :D
Rispetto al giorno precedente al Louvre hanno acceso le fontane ma la porta è sempre sbarrata con gli inservienti all'interno che sembrano affacciarsi solo per farti più rabbia. Stavolta l'immenso museo sarà sostituito dal Musée d'Orsay dove ci facciamo una pera di impressionisti ma dove la nostra attenzione è tutta per Millet e Maurice Denis (le illustrazioni per il libro di San Francesco). Schiviamo completamente le sale dell'art nouveau. L'architettura di una vecchia stazione restaurata e adattata a museo contende l'attenzione alle opere importantissime che contiene. Arriviamo a la gare Lyon con un'ora d'anticipo e mangiamo l'ennesima baguette gelida ma ricca con due caffettoni doppi bollenti. Una volta fatto a pugni con le migliaia di persone che salivano sul nostro TGV, doppio anche lui, ci lasciamo andare sfiniti a leggere e ad osservare una campagna appena innevata. Una sbirciatina alle foto digitali, camille e succhi di frutta nello zaino, Gogol e Hugo, la promessa di tornare insieme.
Il "racconto" sarebbe finito ma alla stazione di Milano il nostro italianissimo inter-regionale diretto nel profondo sud è partito senza riscaldamento e con mezz'ora di ritardo. Continuo a pensare a quella gente che si è fatta tutta la notte al gelo e con posti insufficienti e Dio se mi monta la rabbia. Chi se ne frega, tanto erano tutti meridionali ed extra comunitari! ...Che bello essere tornati in Italia... la realtà ci coglie come un pugno. Per sfogarmi mi affido ai tanti siti di pendolari incazzati e organizzati e "leggo" Le Figaro... che poi, Cristo, è un giornale di destra! Meglio buttarsi sulla pastasciutta.

22 dicembre 2006

Auguri a tutti!

Consuelo mi ha fatto una stella di carta e ci ha scritto "Alla mia maestra miLiore del mondo"... ehm...

17 dicembre 2006

Herzog e i Grizzly di Timothy. La poesia delirante dell'uomo moderno (e del cinema).


D'immagini disponibili purtroppo ce ne sono poche ma avrei voluto mettere la panoramica sulla distesa di ghiaccio, anche se senza voce over è meno leggibile.

Ho visto il film di Herzog, quello sui Grizzly... la prima e l'ultima cosa che mi è venuta da pensare è stata: gli americani sono veramente folli. Ma in fondo si tratta pur sempre di una follia che ci circonda e che, almeno in parte, è dentro ognuno di noi, solo che non sempre è così manifesta, non sempre trova la giusta via per esprimersi. Perlomeno è una follia pura. Si può in parte considerare quest'opera un documentario perché il personaggio è assolutamente perfetto così com'è, la pazzia del cinema cosa potrebbe aggiungere? Può solo documentare, anzi autodocumentare una poesia perfetta. Ribellione inutile, delirio d'onnipotenza, amore-odio verso la natura, rifiuto della cultura degli uomini, questi alcuni dei tratti che caratterizzano il personaggio-persona di Timothy. Herzog non si limita a fare un film, vi entra, lo conclude. Cerca ossessionatamente un qualcosa di perfetto in quelle immagini, lo trova, ce lo mostra, ci sforziamo di vederlo anche noi. Non importa che la lotta di Timothy sia inutile, è una lotta perfetta, romantica. Non importa che il regista veda la natura su un lato completamente opposto a quello dell'ambientalista, perché apprezza l'estremismo del gesto (non nel senso comune del termine politico), il tentativo di rifiutare un mondo preconfezionato, il sogno impossibile... i mulini a vento. Hanno citato Bazin nella scena in cui Herzog rifiuta di farci sentire il sonoro della fine dei due ambientalisti. La tragedia non viene mostrata, ma è riflessa nelle espressioni di una delle donne che è stata più vicina a questo eroe inutile al mondo, ma utile a se stesso. Le stesse espressioni di Herzog mentre ascolta il nastro sono riflesse sul viso di quella donna. Il regista mette in piedi il principio baziniano (tenere la tragedia fuori campo) anche nella realtà, non facendole ascoltare il nastro, ma facendole vedere le sue reazioni, reazioni che di riflesso mostra anche a noi. Entra nella storia fisicamente, è grazie al suo apporto che le ceneri saranno sparse nel luogo dell'accampamento, è lui che conclude la vicenda. Non siamo più di fronte ad un'impressione di realtà, è realtà, ma comunque le azioni vengono mediate dalla presenza della macchina da presa. Timothy sembra rifiutare la cultura dell'uomo ma non rinuncia alla compagnia di una telecamera. Sente la necessità di documentare la sua scelta, d'insegnare ai bambini. Vive in un film. Cerca sempre di entrare nell'inquadratura. Gli capita di esplodere in deliri che Herzog definisce tipici degli attori. C'è una totale fusione fra realtà e proiezione di realtà. L'uomo si è identificato col suo personaggio, torna al cinema il piano sequenza, a dispetto dei meccanismo televisivi di ritmo, ritmo, ritmo. Torna l'idea (sempre Baziniana) di un'estetica della realtà, un recupero di quello che è, potrebbe essere, il cinema (neorealista? cinema europeo dell'attimo di pura poesia non previsto in sceneggiatura... ma girato da un ambientalista americano?). Avremmo mai creduto ad una storia come questa (ai giorni d'oggi) se non ci avessero detto che si trattava di un documentario? Avremmo detto: perfettamente verosimile (quello che è il cinema) ma mai reale. Timothy non era un documentarista e neppure un ambientalista, ma casomai il contrario. Girava un film su se stesso, disturbava e contaminava gli animali ma aveva trovato il suo sfogo perfetto all'obbligo della vita, la fama, l'amore e soprattutto una morte coerente.

Mi viene da pensare che neanche lui avrebbe mai creduto di resistere così a lungo. Quando vivere nel mondo degli uomini era diventato davvero impossibile era giunto il momento del suicidio spettacolare. Qualcuno ne sarebbe rimasto talmente affascinato da montare le sue riprese e aggiungere del proprio.
Ho provato tanta tenerezza, anche per quel bombo morto mentre succhiava nettare dal fiore, per lui che soffriva della morte di quell'insetto, una morte perfetta. Ho riso quando il bombo si è mosso.
Non credo assolutamente che si sentisse un orso, i suoi paragoni sono sempre collegati al suo mondo originario. Casomai umanizzava gli orsi, come Walt Disney. Viveva al confine fra due mondi senza essere nè dell'uno nè dell'altro. Li credeva capaci di sentimenti, pensieri, scelte non naturali per loro. E' una cosa che istintivamente facciamo tutti davanti un animale come davanti ad un peluche, solo che quelli che aveva scelto lui possiedono una forza incredibile. Meglio sarebbe andata se si fosse occupato solo di volpi, che tra l'altro simpatizzavano incredibilmente con le sue carezze :)

www.grizzypeople.com

12 dicembre 2006

12 Dicembre 1969

Milano, l'Italia ricordano (?)

My mind (particolarmente sotto le feste)

08 dicembre 2006

Nostalgici ricordi di gatti


Mi sento un pò bloccata questi giorni. Abbiamo messo da parte i viaggi verso città, paesi, visi non visti, mostre di pittura, incontri di letteratura che ci riempivano il poco tempo libero a disposizione, ci riempivano la vita. La macchina fotografica digitale ha la memoria cancellata. La vecchia Olympus analogica non fa più quel meraviglioso clic da una vita. Oggi, al massimo, una scappata verso l'outlet più vicino per finire i regali di Natale, per osservare cosa ha il coraggio di comprare la gente. Ho voglia di riavere indietro la mia faccia e ripartire. Oggi è festa, la voglia di poltrire è quasi banale, ma la vicina si è messa ad inveire già alle quattro di mattina. Preparo i bigliettini d'auguri così, dopo questo pomeriggio, non ci penso più. Impacchetto tutto e non voglio neppure ricordarmi cosa ho comperato. Per un anno, a meno che io non riesca a trovare un angolo di mondo dove ancora non si festeggi il Natale. Globalizzazione. Mi accontenterei almeno di riuscire a trovare un Babbo Natale non rosso - Coca Cola (e neanche verde-Padania). L'unica cosa buona il pandoro a colazione. Perlomeno quest'anno non ci saremo a scartare i regali, ad indagare le facce e a mascherare le nostre impressioni.
Guardo Pablita e la trovo bella, penso di essere egoista e, per una volta, adottare un gatto norvegese, un gatto col pedigree. Rivedo tutti i cuccioli che ci sono passati fra le mani (ormai una ventina), lasciati a morire per strada, incontrati per pura fortuna (loro ma anche nostra). Il bracciolo della poltrona rovinato, una ciotola di riserva dietro l'armadio, un filo della coperta tirato, una pallina che era finita sotto un mobile, un gomitolo di lana gialla. Immagino come sarebbe Pablita adesso se avesse avuto la possibilità di essere mamma. Immagino come sarebbero stati i suoi cuccioli, se se la serebbe cavata già la prima volta. Il sacrificio più grande, verso quei cosi che di tanto in tanto arrivano a riempirgli la casa e poi se ne vanno, l'ha fatto lei. Noi ci abbiamo messo solo un pò di pazienza. Cancello le foto dall'hard disk, guardarle mi fa troppo male, vorrei essere sicura di aver dato a tutti una seconda possibilità. Cancello il bianco e nero che leccava tutti, la rossa tigrata che non si è fatta toccare per una settimana, quello con l'occhietto malato, li cancello ma so che liberare lo spazio serve a riempirlo di nuovo.
Amo in modo particolare i gatti per la loro indipendenza, l’intelligenza che traspare dai loro occhi che vedono anche in quello che a noi sembrerebbe essere il buio più profondo, la linea sinuosa della loro schiena, le leggende degli antichi popoli che li veneravano come dei. Li amo anche per la loro indifferenza, la loro gratitudine a tratti, il loro affetto caratterizzato da slanci incredibili e altrettanto incredibili vuoti. Li amo perché sono quello che io non potrei mai essere, insomma li invidio. Il mio amore per i gatti è un amore malato e morboso, ma sincero. Un amore che nei suoi momenti luminosi vive di grande e sincera tenerezza. I gatti mi hanno insegnato a dare e ricevere affetto senza ricordo del passato e aspettative per il futuro.
A godere di ogni momento senza il desiderio di fotografarlo per imprigionarlo per sempre. Sogno spesso di sentire una morbidezza incredibile al tatto mentre accarezzo il manto lucido di un enorme felino che appoggia la pesante testa sulle mie ginocchia, scuotendo impercettibilmente le orecchie per il piacere. E’ buffo il loro verso gutturale col quale ci ripagano delle nostre attenzioni. E’ l’unico momento in cui abbandonano la loro inflessibile dignità, le pose statuarie o atletiche e si lasciano andare ad una imbarazzante, intima confidenza. Essere nelle loro grazie è il regalo più autentico che una giornata riesca ad offrire come pure poterne osservare i movimenti eleganti grazie ad una fiducia che regalano con criteri a noi incomprensibili. Con la stessa immotivata e irremovibile decisione con la quale assegnano mortali e insuperabili antipatie, quasi un malocchio. Che sappiano realmente vedere gli spiriti? A volte quando guardano spaventati o confusi un punto della casa assolutamente vuoto non posso fare a meno di pensarci e rabbrividisco a ricordo di riti ancestrali.
Vorrei essere un po’ gatta, ma niente è più lontano dalla mia natura. L’unica cosa che accomuna donne e gatte è il loro portare in grembo i propri figli, nient’altro.
Comunque, una cosa l’ho imparata: mi muovo come una gatta lungo le mura che abbracciano questa città fredda d’inverno e calda d’estate. Sul treno so essere addirittura spudorata, perché la vicinanza col dolore rompe ogni mia ritrosia, ma lungo le strade trafficate che sono obbligata a percorrere sono timida come un felino selvatico. I passanti sono i monaci buddisti che, con poche parole lievi e sicure al tempo stesso, mi ammaestrano alla loro volontà e io, come l’enorme felino del mio sogno, piego la testa davanti anche solo ad un semplice sorriso, facendo le fusa come un gattino, divento cane. Il sentimento è il mio guinzaglio, la parola la legge più alta a cui mi sottometto senza il minimo giudizio. Sono atea ma credo, credo a tutto quello che mi si dice.

04 dicembre 2006

Qualcuno si chiede i motivi del terrorismo? Il vento che accarezza l'erba.


Alla fine ci sono caduta. Dove? Nella dissertazione analitica da quattro soldi e logorroica. Abbiate pazienza.

Visto ieri sera al cinema "il vento che accarezza l'erba" di Loach e mi è venuta una voglia istintiva di parlarne, di sentirne parlare, di consigliare di vederlo. Anche se, da quel che ho capito, il titolo italiano avrebbe dovuto essere "il vento che accarezza l'orzo" da una canzone della resistenza irlandese. Ma forse i produttori temevano che avremmo associato l'immagine alla confezione dell'orzobimbo o magari di lanciare un messaggio a favore dell'acolismo (In Italia TUTTO è possibile).
Sono uscita dal cinema con nuova carica. C'è chi crede che il cinema in quanto arte non debba essere politico, io non credo. L'arte è comunque funzionale ad un discorso sulla società, ad un'evoluzione del pensiero e il pensiero politico in senso vasto è sicuramente centrale. Il medium cinema, che è nato come mera registrazione della realtà (sebbene con l'handicap del muto e del B/N che, comunque, stando ad Arnheim era la sua sola possibilità di essere poetico, perché era la sua caratteristica) si è evoluto e ha raggiunto un grande livello comunicativo, vari livelli comunicativi. Al primo livello questo è un film politico, a livelli più profondi è un film poetico e psicologico quindi non perde nulla solo perché ha scelto un argomento storico, non lascia a casa l'arte. Il cinema, con la forza della simbologia, poetizza la realtà e la scava. Il tema che tratta è un problema aperto di cui è bene parlare. E' bene non dimenticare l'Irlanda, è bene fare facili associazioni con l'Iraq, seppure siano due situazioni innegabilmente diverse (ma anche simili sotto certi e solo certi aspetti o forse molto in fondo).
Al giorno d'oggi se parli con qualcuno, cercando comunque di moderarti, e arrivi a dire che il terrorismo potrebbe non essere condivisibile ma sicuramente comprensibile, ti guardano come se fossi un pazzo, un morto che cammina, un perdente. E, su questo argomento, mi conviene non approfondire il discorso.
Loach ha il merito di risalire ai motivi del terrorista nel modo più quotidiano possibile: con la partita iniziale che viene vietata. Gli uomini non possono più incontrarsi per giocare, non possono più mandare a quel paese l'arbitro, le regole. Qui nasce il vero conflitto, non è un caso che il film cominci proprio con quella scena. Ci leggo anche un rifiuto del martirio gratuito che si collega alla critica su certo clero (ma perché non una critica sul clero intero? La vecchia storia del buon prete di provincia comincia ad essere retorica): il primo ragazzo che muore, muore stupidamente, sarebbe stato meglio che avesse detto il suo nome e poi avesse combattuto a fianco degli altri. Non è un eroe, è un martire, differenza sostanziale. Quando i dissidenti sono riuniti e devono decidere se ratificare il trattato fantoccio con l'Inghilterra, c'è sempre qualcuno che, quasi sottovoce, deve ricordare di mettere anche quel nome nella lista degli eroi. In questi fatti, comunque, la religione non c'entra, come non c'entra in Iraq dove è solo un pretesto che tiene uniti, visto che gli altri motivi per essere uniti (da una parte e dall'altra) non sono abbastanza forti per giustificare lo scontro a livello di povera gente, di gente comune. I motivi veri sono economici e razzisti da una parte, di sopravvivenza e libertà dall'altra. In Irlanda, in più, era ancora vivo un sentimento di amore patrio (che non si limitava al colore della bandiera, ma andava oltre... per esempio arrivava al suono delle parole), che ormai nel mondo occidentale non esiste più o è stato strumentalizzato dalle destre.
Il film finisce nell'unico modo possibile: non finire perché in Irlanda il problema non é mai finito, come non è mai finito in Palestina (per esempio). Nel film, comunque, trovo un sano invito a risalire alle origini delle cose prima di giudicare un atto, seppure estremo. Prima di giudicare "il male" cercate di vedere chi è la causa, l'origine, il motivo di quel "male" e soprattutto se ha fatto del "male" per primo. Nel finale è reso in immagini il concetto astratto di coerenza, il rispetto che deve esserci fra nemici (seppure amici), il senso del dovere a cui ci si deve affidare per non lasciarsi dominare dai sentimenti, per non tradire il sentimento più grande, il risultato che si vuole ottenere. Ho storto la bocca solo davanti al bambino denutrito, soluzione facile e di cui non sentivo il bisogno per giustificare gli atti del protagonista che così vengono banalizzati, portati su un livello di populismo di bassa lega. Inoltre, anche se l'inquadratura della donna che cammina fra l'erba è bellissima e rimanda a tanta iconografia artistica della madonna, il tutto si inserisce malamente nella storia, è chiaramente una forzatura. Mi si sono storte le budella davanti alla scena della tortura lasciata nascosta da un parziale impallamento della macchina visto che la forza dell'immaginazione è più potente della realtà. Quella tortura è inoltre funzionale alla svolta di quel personaggio.
E' sconvolgentemente ovvio che sia esistita e continui ad esistere l'IRA (acronimo che in italiano è addirittura perfetto visto che acquisisce un ulteriore e coerente significato) e non è così facile giudicare i terroristi nè sentirci vaccinati dall'odio, anche se tifiamo perché il dottore non spari nel cuore del ragazzo, ma si lasci vincere dall'affetto e dalla pietà. Ma nel film si combatte pur sempre una guerra, la guerra non conosce i sentimenti, nella guerra i sentimento è debolezza e la debolezza é morte, é sparare quando ormai ti hanno ucciso (Piero sparagli ora e dopo un colpo sparagli ancora).
Per dare il contentino a chi è contro la politica al cinema: nonostante la palma d'oro che si è attaccato sulla giacca (Moretti, anche se il suo film era politico, non l'avrei fatto neanche partecipare, Autore o non Autore) forse non è un capolavoro nel senso cinematografico del termine (qual'è poi quel senso chi lo sa di preciso), non verrà citato fra i dieci film più belli della storia del cinema, non è un esemplare unico (bloody sunday - che però non arrivava all'origine anche se la lasciava fra le righe molto ben visibile-) ma andava fatto, sono felice che sia stato fatto e soprattutto va visto.

Dopo il film una grigliata con verdure anche loro grigliate e chianti, tanto per non scordarmi di essere una piccola borghesuccia e, per darmi un tono, ovviamente l'argomento principale di discussione è stato il film. Serata, comunque, molto dolce, molto stimolante. Ma, soprattutto, ancora una volta felice di essere andata al cinema... Non è affatto banale.

02 dicembre 2006

Prima settimana di DAMS ed elogio del Tempo Perso

Un pò imbarazzata per l'incidente al viso, un pò ansiosa di ricominciare, un pò preoccupata per i nuovi contatti umani, un pò desiderosa di rivedere i colleghi-amici, un pò curiosa sui nuovi programmi d'esame e così via... ho terminato la mia prima settimana-specialistica.
Quante volte mi sono sentita dire che al DAMS non s'impara niente, che è una laurea di serie B, che saremo tutti disoccupati.
La Moratti che consigliava di non iscriversi alle facoltà umanistiche, i tagli alla sovvenzione della cultura, la ricerca che serve solo se crea profitto, se produce risultati commerciabili (secondo menti a parer generale illuminatissime) e così via.
La critica più diffusa: al DAMS s'impara tutto e niente... Faccio fatica a considerarla una critica quando ti si apre la mente, t'insegnano a pensare, ti spingono ad approfondire mille materie che neanche immaginavi esistessero. Poi devi essere tu a crearti il tuo, i tuoi percorsi, quello è certo.
Fazio chiese alla Rossanda cos'è il comunismo oggi. Lei gli rispose: Far si che a tutti venga data la possibilità-capacità di pensare.
La specialistica è ancora meno specialistica della triennale, è vero, e per questo sono felice di essermi iscritta anche se ne ero dubbiosa. Non costruisco il mio futuro sulle strategie di mercato ma invece mi avvicino al concetto di idea, vedo oltre la superficie delle cose, alleno la mia mente ad essere critica, imparo ad osservare, tengo viva la mia curiosità.
Studio cinema e non conosco moltissimi film, ma cerco di conoscerne pochi -scelti fra moltissimi che mi sono stati citati in questi anni- in maniera profonda.
In più ci sono persone (competenti) e non docenti. Persone che camminano su e giù per una piccolissima aula bollente, fumando a ripetizione e riportando fatti quotidiani; intellettuali che hanno abbandonato i paroloni e la Cultura e stanno cercando di capire cosa gli si muove intorno, come pure uomini che osservano un dipinto di "secondaria importanza" e ne tirano fuori un'analisi dell'Odissea (questa la mia settimana).
Vi invito ad una lezione del DAMS.

Intanto mi vado a cercare "Chaltron Hescon" di Labranca.

E, in mezzo a tutto questo, come dimenticare l'amico-treno e i suoi quotidiani ritardi che, come consiglia Maurizio, sono fonte inesauribile di tempo perso ovverosia la vera ricchezza dell'intellettuale, o meglio, l'unica possibilità che resta in questa società di avere ancora intellettuali.