Google
 

30 novembre 2007

Finalmente l'Immortale di Ol'ga Slavnikova

Immagine di L' immortale
Finalmente ho pochi minuti per parlarvi di questo libro straordinario. Cliccando sull'immagine andate direttamente sulla pagina di aNobii dedicata al libro dove trovate quarta di copertina e commenti di altri utenti.
Aleksej è un veterano russo della seconda guerra mondiale che uccideva nazisti con un cappio di seta. Tornato dalla guerra, trasportandosi per treni e carretti un pesantissimo letto dorato preso al nemico, subisce un ictus e resta paralizzato e così costretto nello stesso letto. La sua pensione sostiene la famiglia che cerca di evitargli traumi nascondendogli lo scorrere della storia, facendogli credere di vivere ancora nella Russia socialista. La figlia, aspirante giornalista, gli prepara nuove notizie ricavate da vecchi documenti storici e gli appende una fotografia di Breznev in camera, facendogli credere che niente sta cambiando e, in effetti, imprigionandolo in una sorta di assenza di tempo, di immortalità senza passato nè futuro, ma solo un eterno, immobile presente. Ma Aleksej allena le sue membra viziate a sostenerlo nell'intenzione e comincia a fabbricare cordicelle con cui cerca di tradire sua moglie accettando nel suo letto d'infermo la morte.
La storia incredibile (copiata pari pari nel film Goodbye Lenin) in odore della più grande letteratura russa - vi si ritrovano sprazzi d'impossibile bulgakoviano, atmosfere e personaggi dostoevskijani e il grottesco di Gogol' - vive pulsando di uno stile incredibile in cui un cesto da basket senza rete diventa il cerchietto metallico (ora di plastica) per fare le bolle e il cielo invernale il sapone. Oppure per descrivere la mancanza di odore di lenzuola lavate ripetutamente dall'urina del vecchio infermo si usano come metro di paragone le rose sintetiche dell'abito dell'addetta alla pensione del veterano.
Descrizioni che vivono di un immaginario quasi impossibile, profondità di sentimenti umani possibili solo nella totale mancanza di pudore degli scrittori russi.
Consigliatissimo... e ora divoro Diceria dell'untore di Bufalino, altrettanto incredibile nella storia e nello stile.

26 novembre 2007

Egocentrici editori di se stessi.

Non potevo non rispondere all'invito di un amico e così, anche se quando mi trovo ad Ancona (purtroppo solo per poche ore) cerco di disintossicarmi da internet per qualche giorno, mi ritrovo a riflettere sui motivi scatenanti l'esistenza virtuale di queste pagine.
Per poter rispondere sono dovuta tornare indietro di un anno nell'archivio e mi sono resa conto che il primo post non era altro che un tentativo di scappare da altre pagine, ben più fisiche, in odore di gialla carta stampata e inchiostro da pochi soldi. All'improvviso mi ero resa conto che la laurea specialistica appena cominciata mi aveva tolto troppo tempo libero, il tempo che divido in parti uguali fra amici, famiglia, sconosciuti. Il tempo dei viaggi e il tempo di letture non condizionate, ma soprattutto che dieci ore di sforzo intellettivo richiedevano una via d'uscita, anche fosse fatta di pochi secondi, purché non comportasse l'uscire dalla mia prigione dorata. E' così, con poca coscienza di quello che stavo facendo e di quello che volevo dire che nasce questo blog dai complessi d'inferiorità. Il tutto, ovviamente, era condito da uno spesso strato di voglia di condivisione, desiderio di farmi conoscere sia da chi mi ha incontrato poi, sia da chi mi conosceva già bene, ma mai fino in fondo. Nello stesso periodo, inoltre, cominciavo a coltivare non un sogno, più che altro lo strumento appena scoperto di esternazione dei miei pensieri - la scrittura - e avevo bisogno di condividerla, di giudizi, critiche e apprezzamenti che mi avrebbero permesso di migliorare (perché, oltre che cura, scrivere è essenzialmente aver voglia di farsi leggere). Sentivo anche che una nuova stagione di vita si andava aprendo (anche se poi è rimasta fossilizzata negli anni) e avevo paura. Comunque, in definitiva, ho aperto un blog perché sono curiosa, perchè a differenza di un sito comportava meno competenze informatiche e più libertà espressiva, perché si avvicinava di più alla forma del diario che, considerata la mia memoria corta che tiranna si ricorda solo delle cose che mi entusiasmano veramente, facendomi sempre sentire ignorante, mi avrebbe permesso, col tempo, di rispolverare le tante esperienze che sarebbero poi piovute nella mia vita che cerco sempre di arricchire con scoperte casuali. In seguito mi sono accorta che vecchi amici lontani (e la mia stessa famiglia la cui lontananza forzata mi ha lasciato una cicatrice sul cuore) potevano scambiare con me opioni quotidianamente e che con i nuovi amici le opinioni scambiate grazie a frammenti di minuti rubati al dovere, servivano a rafforzare un legame non solo virtuale.
Questa scrittura è diventata un allenamento a vivere, parole scorrono come le espressioni dell'attore che, davanti allo specchio, prepara le sue rughe ad incontrare quelle del personaggio che, grazie a lui, gli spettatori vedranno redivivo sul palco fin nei minimi, sentimentali, atteggiamenti.
Non saprei dire quale post mi ha reso più orgogliosa o mi ha fatto vergognare, ma valgono quanto azioni giornaliere e voi che passate valete quanto sorrisi e pianti accarezzati con lo sguardo o con le dita.
E, mentre guardo le colline che di solito mi mancano tanto, mi rendo conto che è tutto qui, che sono tutta qui.

22 novembre 2007

A volte in un vecchio taccuino ingiallito (e in una casa senza sedie, nè lampadari)

E' cominciato il mio ultimo anno da universitaria e ricomincio a muovermi per le strade vaporose della fredda e materna Bologna. Mentre nella stupenda aula Dioniso del nostro restaurato dipartimento redivivo si discuteva di serialità, io mi sentivo sulle ginocchia il piccolo peso del taccuino nero che, persi i viaggi in treno, ora recuperati grazie al nuovo ciclo di pendolarismo, avevo lasciato impolverare su una scrivania già ingombra di libri tanto desiderati da non avere il tempo di leggere. Fra le sue pagine ormai ingiallite tre viaggi e due anni di pensieri alla rinfusa ma, soprattutto, l'invito a fotografare, di nuovo, i miei pensieri, recuperare da incontri con vecchi amici le immagini trascritte di una vecchia sede fumosa di partito e di cuori pesanti che battevano all'unisono, il mio con qualche colpo a vuoto a non poter assorbire tanto affetto, e tutti col difetto di essere spostati decisamente più a sinistra della norma. Rincollo ad una ad una vecchie emozioni come carta da parati e poster ammuffiti, ma non sbiaditi. E mi ritrovo di nuovo a scrivere e a partecipare, a occupare quell'ora e mezzo di viaggio che per me è pura libertà mentale e a leggere (finalmente il meraviglioso Immortale di Ol'ga Slavnikova), a condividere con sconosciuti il puro piacere di raccontarsi.
Ma domani non si va a scuola, la scolara modello che ero ha da preparare un importante arrivo. Ci sono i muri da ripulire da strati di vita che si sono depositati ad appesantire l'intonaco, ci sono i lampadari da scegliere e appendere al posto di sei anni di semplici fili a sostenere una lampadina che era più che sufficiente a farci sentire a casa, che era tollerata dai nostri amici come parte stessa del nostro carattere a due, ci sono sedie da comprare perché quattro non bastano più alla nostra cerchia di affetti intimi che si sta allargando. Ma, domani, siamo noi a voler vedere nascere questa casa, per accogliere e, come una guida turistica del sentimento, scovare in città e nell'immensa pianura luoghi e affreschi sbiaditi da condividere con chi respira le cose allo stesso ritmo del tuo fiato.
Vi aspetto Mamma e Agnese ;)

20 novembre 2007

Palermo story o Il cielo sopra Palermo

Se si arriva in un posto con delle idee precostituite non si è liberi di immaginare. Sono venuto con il cuore aperto, voglio che Palermo mi racconti la sua storia, affinché io la racconti. [...] Sono gli stereotipi i peggiori nemici della cultura contemporanea. Ho già dimostrato quanto questo approccio rock'nroll mi sia congeniale.


Palermo, capricciosa e femmina, prepara la sua gente (e i suoi soldi) ad un nuovo progetto di Wim Wenders, maliziosa si mostra al suo occhio di viaggiatore documentarista e cerca nel suo cuore più vero, fra le sue tante ferite, pescatori e donne incinte da regalare ad una storia che ancora non esiste. E lui si lascia catturare dal cuore d'Italia, dalla lingua melodiosa e pungente dei mercati e del porto, del teatro Garibaldi, un teatro all'italiana dove si muovono ancora fantasmi di lunghe e gonfie gonne, di cerone e parrucchini. Il regista si muove fra gli odori dei ristoranti e dei vicoli, della Vucciria e, girato l'angolo, si lascia meravigliare da edifici barocchi che gli suggeriscono immagini e parole, si stupisce dell'immodestia del liberty e si lascia fagocitare da stanze d'albergo, le stesse che lo hanno visto, per l'ultima volta, con Antonioni, il cui sentire, e forse anche qualcosa in più, è tutto intorno a questa sceneggiatura ancora da scrivere. Nel viaggio inquieto di Campino ne aspettiamo la musica, dopo la voce soprannaturale di Teresa Salgueiro e i tram di Lisbona, i sigari dei vecchi cubani e le sigarette del Jazz.
E' la città, splendida Palermo in odore africano e arabo, dove in un tempo immobile e perenne donne conversano ancora nei fumi dei bagni turchi, che suggerisce il film all'autore e noi ne aspettiamo il viaggio dentro ai nostri occhi, preparandoci al richiamo inevitabile verso un'altra partenza.

18 novembre 2007

Il sorriso di Haidi Giuliani


Per tornare a Genova ho preferito la solitudine. Avevo bisogno di pensare, rivivere tre giorni oltre il finestrino di un treno che ha attraversato alcune fra le zone più squallide di un'Italia martoriata da quell'economia fallimentare che doveva farla crescere. Fra scheletri di umanità e edifici grigi come le zolle dei campi, mi accompagnavano ragazzi che infilavano il naso nei cellulari perché non c'era niente da vedere. Cercavo di riavviare quella parte di cuore che sei anni fa si è fermata e non ha mai più voluto saperne di ripartire, ogni suo piccolo tentativo, infatti, veniva regolarmente ucciso dai tanti che si permettevano di giudicare attraverso i giudizi di altri. Portavo a Genova un fardello di sei anni di coltellate. Le scheletriche geometrie della peggiore pianura padana mi hanno lasciato, tremante di freddo, alla stazione di Tortona. Per me, ragazza di mare, un non-posto di scortesia. Poi è arrivato il treno per Genova e i denti erano talmente stretti da scricchiolare. Quando ho cominciato a sfogliare la mia copia del Manifesto una signora di mezza età mi ha aggredita: "cosa state facendo a Genova?". Un'altra avvertiva casa di non venirla a prendere in stazione, tanto ci sarebbero volute ore ad arrivare perché la stazione, secondo lei, era occupata dai manifestanti. Sguardi sprezzanti. Ero basita, cose che succedevano decenni fa... quando Guccini cantava "e alcuni audaci in tasca l'Unità".
E non c'era cuore che intendeva rimettersi in marcia.
Ma, attraverso i finestrini, il paesaggio andava facendosi più accogliente e Genova ci attirava nel suo cuore di terra, attraverso le sue tante gallerie, sopra i suoi ponti sospesi sul mare.
Ero sola, il mio viaggio richiedeva solitudine e avevo bisogno di arrivare, per questo ho evitato di prendere uno dei treni speciali. Ricordavo l'assurdo ritardo che ci avevano fatto accumulare sei anni fa, le minacce alla stazione di Brignole dove celerini continuavano a caricare dopo tre giorni di continue e assurde violenze e non ci permettevano di andarcene da quell'inferno di apnea, di farci riprendere, seppure per sempre asmatici, a respirare.
Avevo la cartina, ma non serviva, un mare di gente mi indicava la strada. Il popolo di Genova lo riconosci dalle gonne colorate, i sorrisi ai quali fanno corona i rasta, gli zainetti carichi di panini e merendine per il lungo viaggio, i tanti lunghi viaggi.
E, fra quel mare di gente, gli amici di sempre. Gli stessi con cui ho affrontato la paura di morire, il bisogno di difenderli e di essere difesa. E anche loro, come me, avevano totale fiducia in ogni testa e cuore di quel corteo, ma non si fidavano dei celerini nascosti dal prefetto su richiesta del sindaco e continuavano a spiare i tetti sopra le nostre teste, gli stessi da cui partivano lacrimogeni che ferivano la testa, che lasciavano ragazzi svenuti in terra e poi massacrati. Guardavamo con terrore la sopraelevata che accompagnava il corteo per la quasi totalità del percorso. Ma vedevamo anche i sorrisi di chi forse in quei giorni non c'era, ma che ha saputo, è inorridito, e ne ha fatto anche la sua battaglia. Soprattutto ci è capitato di vedere Haidi. E Haidi rideva di quell'abbraccio collettivo. E noi scioglievamo il nostro cuore bloccato nel suo sorriso, ci sentivamo un pò tutti suoi figli e Carlo nostro fratello, un fratello che ha difeso i suoi fratelli minori, più spaventati, più impreparati e ha pagato anche perché noi riportassimo intere le nostre teste alle nostre madri, perché avessimo il tempo di correre, quello che ci avevano detto di fare a casa, ma quello che non era possibile fare senza le barricate, senza chi, lanciando pietre, rallentava la marcia impazzita di uomini che non rispondevano più neanche agli ordini del comando di polizia.
Genova, col sorriso di Haidi, ci ha rimesso in marcia i cuori, ha riacceso la speranza che Genova, che ci ha concesso una riappacificazione, resti memoria della follia, impensabile, che non ha più pretesti per riesplodere. Genova sia adesso una grande famiglia che difende alcuni dei suoi componenti che stanno pagando per aver avuto bisogno di difendersi, che chieda giustizia, che permetta alla famiglia di Carlo di avere un minimo di pace, se è più possibile, che vigili affinché questo meccanismo di morte, violenza e pazzia si fermi una volta per sempre e le persone possano riavere la libertà, le piazze, che in Italia non serva coraggio per difendere le proprie idee.
Ho camminato come fossi un tutt'uno con un corteo silenzioso, rispettoso, determinato. Un silenzio che è esploso in un boato di rabbia arrivati nella zona in cui non era concesso esistere, ma che si è subito spento. Con i ragazzi, le donne, gli uomini, gli anziani e i bambini del corteo ho riconciliato le mie emozioni devastate, ho sentito che non sono sola nel mio dolore, nelle mie paure che a tutt'oggi svegliano il mio sonno nervoso.
E poi mi sono lasciata ingurgitare di nuovo dalle gallerie di Genova e le paure pietrificate che da sei anni comprimevano il mio respiro si sono sciolte e ho respirato a pieni polmoni un'aria libera da gas, oggi e sempre.
Ragazzi in marcia! La storia siamo noi, lo eravamo nel '45 e lo siamo stati sei anni fa e ieri.

14 novembre 2007

Comunicazione di servizio per la manifestazione del 17 Novembre a Genova.

Io, con buone probabilità e con tutto il cuore e il fegato che riesco a mettere da parte, ci sarò, come ci sono stata ormai sei anni fa, per ricordare e non rivivere gli stessi incubi, per non permettere la condanna di capri espiatori, per chiedere giustizia, perché in Italia ci sia di nuovo la libertà di pensiero e di parola, perché si risolva il grosso problema di legalità e diritti civili, ripetutamente violato dalle forze dell'ordine.
Se avete notizie su treni e organizzazione in generale fatemi sapere. Mi incontro coi compagni là, ma faccio il viaggio da sola.
Sembra che il corteo parta alle ore 15.00 dalla Comunità di San Benedetto al Porto, Marina di Genova, per giungere in Piazza De Ferrari.
Alcune notizie qui
Se andate scrivetemi via mail (saraiommi@tin.it) che ci confrontiamo su come prepararci.
Se avete bisogno che io ci porti anche un pezzettino del vostro cuore speditemelo, che me lo metto in tasca e lo faccio viaggiare da clandestino, sul treno, insieme a me.

13 novembre 2007

Purea di pensieri, ripartenze, progetti, immagini, esperienze.

Mi prendo una dolcissima pausa fra la preparazione di questo esame e altre attese e vi preparo un polpettone di giornate diverse condito di emozioni e nuove esperienze prima che la data di scadenza della memoria si avvicini troppo.
Siamo passati attraverso e oltre l'appennino reggiano, per strade strette fatte di curve e paletti per la neve, abbiamo svalicato e incontrato castelli. Fra le vecchie montagne le cui energie sotterranee sono tutte raccolte in frutta e ortaggi dalla gente semplice dell'appennino, abbiamo scoperto luoghi che si chiamano come le cose: canala, bettola, gatta. I nostri occhi hanno assaporato colori autunnali, gustato l'immagine di viti ormai senza uva e idee di cantine colme di bottiglie di vino novello stappato per affetto su lunghi tavoli in legno grezzo macchiati dai cerchi delle bottiglie e dei bicchieri.
Sono entrata a far parte di un gruppo di ricerca di antropologia del contemporaneo. Intervisterò signore e ragazze, farò parte della loro vita per qualche istante, quel poco di tempo che basta a rubare un'idea di matrimonio, scoprire cosa sta cambiando nell'immaginario femminile. Osserverò osservata sguardi densi di memoria o di aspettative per il futuro, ruberò particolari e parole con l'occhio meccanico della telecamera e il fruscio della penna (rigorosamente nera) sul taccuino. Cercherò d'interpretare disagi, premure, diffidenza, condivisione intima.
Recentemente ho visto due film al cinema: in Un'altra giovinezza di Coppola ho trovato troppi richiami abusati alla letteratura, ma anche alcune scene da sentirle fin dentro alla pancia (io le cose che realmente mi emozionano, mi danno, le sento nell'intestino che può gelarsi o sciogliersi nel calore di un piacere addirittura piccante, fastidioso). Vi ho trovato un finale ripetitivo e una simbologia ostentata ma mancante di vero senso, la ricerca dell'immagine oltre un significato assente, inutili e ripetitivi specchi che si rompono, ma anche una perfetta scena nel bar. Facili richiami eros / nazismo e troppi personaggi superflui che vengono presto uccisi dalla loro stessa inutilità, escamotage facili, ma funzionali. La bella idea di una ricerca fino al protolinguaggio, un conflitto fra amore e cultura (che poi l'amore stesso è cultura), un messaggio che fra evidenti difetti riesce comunque a trasparire, a comunicare, a respirare.
Poi mi sono lasciata conquistare da Ai confini del paradiso di Fatih Akin, da istintivi e profondissimi rapporti d'affetto, un intreccio di culture a creare l'umano, una sceneggiatura perfetta che vive di soffi, pelle e sguardi sfiorati contro un destino forse beffardo, un'inquadratura finale che da tutto il senso precario dell'attesa e della vita, un film che è un viaggio interminabile di partenze, ritorni e ripartenze.
Ho visitato la mostra di uno dei miei pittori preferiti (Burri alla Magnani Rocca ancora fino al 2 Dicembre) e ho riflettuto sull'umano fra saldature, crepe, muffe, bruciature, colore, graffi, giochi di luce fra opaco e lucido. Una lotta di elementi come la lotta delle cellule e l'aggressione del tumore. Un'esposizione ragionata, dove si può seguire un percorso d'evoluzione di un'idea che resta sempre la stessa, ma ha tante possibilità espressive. Mi sono sentita scaldare dal fuoco che continua ad ardere nei suoi lavori oltre una villa bianco gelo e un giardino immenso, dove oziano pavoni e fontane (il ricordo, intanto, tornava all'inverno condiviso di Città di Castello).
Ho provato il piacere di scegliere il pesce al mercato, chiacchierando con pescivendoli d'importazione e casalinghe.
Forse viene prima il dovere, ma questa voglia di raccontare il piacere era arrivata al punto di rottura e non ho potuto far altro che travasarla dalla mia mente, al mio cuore, alla pagina in bianco e nero fatta di luce e condivisione che è diventato questo blog...

04 novembre 2007

Una passeggiata nel bosco delle cose.


Decidiamo di camminarli i quattro più quattro chilometri che separano casa nostra da un posto in cui è contenuta tutta la poesia delle cose vecchie, ricordi e vite contadine, ruggine, ragnatele e polvere illuminate in riflessi di bottiglia dai malati raggi solari di questo inverno che comincia, timidamente, a farci sperare nella neve.
Guardiamo il greto del fiume cambiarsi lentamente d'abito, i fagiani sparire fra i cespugli, il sole tramontare troppo presto per la nostra voglia di muovere passi fino a che non cominciamo a scorgere viti selvatiche che si intrecciano attorno a vecchie damigiane quasi scordate in un prato.
In un vecchio casolare è raccolta la storia della passione di Ettore Guatelli, un maestro elementare figlio di contadini e con la sua è raccolta la storia di migliaia di uomini e dei loro oggetti comuni, dei loro oggetti inventati, dei loro oggetti sofferti, dei loro oggetti rammendati da mani sapienti di miseria. Pretendono attenzione calzolai, contadini, orsanti e le loro calze buche e ricucite migliaia di volte, il finto violino della scimmietta.
Ettore era un uomo che dormiva vestito, scambiava le bombe lasciate dai tedeschi con la roba che tutti, passata la peggiore miseria, ormai, buttavano via e si è ritrovato un museo per casa, quasi a non lasciare spazio al lavoro agricolo dei fratelli, ma chiamarlo museo non rende giustizia a quell'idea, a quella poesia, a quell'amore e soprattutto alla vita che si respira in quella non morte di oggetti che nessuno ha più bisogno di utilizzare.
Mi riscopro animista, mi muovo fra l'affascinato e l'inquieto fra centinaia di oggetti di uso comune disposti in incredibili composizioni che scopro osservarmi dai muri, dai tetti, dalle scansie come se ascoltassero il mio respiro e provassero anche loro a gonfiare i polmoni per urlare la loro storia ormai taciuta, per spiegare i calli, le rughe, il freddo di vetri che gelavano dall'interno, la guerra, i troppi figli. Ombre, fantasmi, cocci di storia contadina, fumo e odori fra l'intonaco stanco di un casolare che ha visto la fatica e non è riuscito a proteggere le sue vite dal freddo. Bracieri da mettere sotto il letto e una madre che spaccava con le mani il ghiaccio che si formava nell'acqua, in camera.
Mi stupisco della genialità del bisogno, dell'inesistenza dello spreco nella nostra povera società contadina: macchine per togliere pelucchi ai maglioni, taglieri bucati per il troppo uso, caschetti tedeschi divenuti orinatoi.
Una camera da letto fra centinaia di orologi e di macchine da scrivere ad angosciarsi di ogni minuto di vita che passa, non uno, ma decine di oggetti simili fra loro, perché ogni graffio ha da raccontare una storia diversa, di una casa diversa, di simili visi sporchi. Il rumore melodioso e leggero di tappi legati a corda di salame che sbattono fra loro a proteggere l'uscio dalle mosche, quello ripetitivo del telaio, il rumore sordo e ritmato della zappa.
E poi centinaia di barattoli e in ognuno di quei barattoli migliaia di piccoli e minuscoli oggetti, uno strofinaccio incorniciato per mostrare il rammendo delle donne, la loro più grande ricchezza, la certezza di essere sposate.
Un non-luogo di ricordo a cui arrivare a piedi, rispettosi e curiosi, rime scritte nel ferro, nella canapa, nelle pannocchie, nel legno. Desiderio intenso di imparare a raccogliere parole e combinarle insieme come Ettore raccoglieva storie di oggetti e delle loro persone, partorendo una meravigliosa poesia di fatica e memoria.

http://www.museoguatelli.it/default.asp

"Io vorrei un museo dall'estremo ieri all'estremo domani"

Se volete passeggiare attraverso i miei occhi nel bosco delle cose fatelo qui

02 novembre 2007

Una luce oltre il buio salato del mare.


Arriviamo mentre un tramonto salato si sta spegnendo a poco a poco a contatto con l'acqua, scoraggiati da un'autostrada che ci ha rubato ore di vita. L'ansia da spazio stretto, il dispiacere per ore di libertà spese all'ergastolo dell'asfalto si scioglie fra mille riflessi spinti al cielo e ai nostri occhi da piccole onde tranquille, come tranquillo d'improvviso torna ad essere il nostro sentire.
Scalette, fiori, ulivi, cupole di fogliame da cui sprizza una polifonia di limoni e di arance e il velo evanescente di una spuma, di una cipria di mare che nessun piede d`uomo ha toccato o sembra...*, muriccioli in sasso, strade a picco sul mare e sui paesi. Si scorge dall'alto il castello di Lerici, che domina la baia di fiascherino, se le calde temperature estive ci avessero rinfrancato la pelle avremmo potuto immaginare persone stimolarsi l'appetito osservando la luce del cielo che si spegne e le luci degli uomini che si accendono, passeggiando davanti ai ristorantini protetti dalla possenza dei bastioni, lungo un molo che non accoglie più la pesca, comprato dal turismo. Ma muove i primi passi l'inverno e le strade sono per gli abitanti e per il rumore del mare.
Tellaro è un'accozzaglia di case, un trionfo di balconcini che sgomitano per dominare quel mare che va a poco a poco perdendo colore. Un intricato percorso di borghi, un improvviso panorama, una chiesa di canti che si difende dal mare e una abbandonata alla sua posizione scomoda. Tellaro sono agavi morte dai fiori vivi oltre le grasse foglie centenarie avare di frutti.
Vedo Gabriele sparire dietro l'ennesimo muro e all'improvviso aprirsi l'infinito. L'infinito negli occhi di un anziano signore dalle mani scure di pesce e di olive che osserva l'unica luce fra un buio che divora e non sostiene lo sguardo. Un'unica ancora di luce sulla quale, forse, è appoggiato suo figlio fra reti e pescato. La luce si spegne e si riaccende e l'uomo si allontana, il capo reclinato, gli scappa un sospiro.
Altri uomini mettono in mare le barche, è finita la stagione turistica.

Montemarcello si difende da una vita di pesca e si arrampica all'interno di un'area protetta dove la natura rompe gli spazi geometrici creati dall'uomo in una confusione intricata e abbondante. Oltre le case c'è solo la chiesa, nessun ristoro condiviso, in questi paesi dall'agricoltura faticosa conquistata alla terra ripida si sente la necessità di condividere solo le pene, di scambiare con la madonna e il santo un voto per una guarigione.
Una donna chiama i suoi gatti che la seguono frettolosi in casa. E' l'unica figura umana che si può scorgere oltre i raggi ormai spenti di questa giornata di festa che va scemando.

Sfioriamo Ameglia rincorrendo gusti già conosciuti. Anche le tombe si aggrappano saldamente alla terra per non scivolare in mare. Passiamo dentro il vento che s'infila fra le case, viene respinto dal duomo, fa muovere i teloni di una vecchia giostra di legno spenta oltre l'ordinato centro storico di Sarzana. Ci accoglie un ristorante che è solo il prosequio di una casa di vecchi sarzanesi. La figlia serve in tavola, possiamo osservare gli anziani genitori muoversi nel corridoio che conduce alle camere, in vestaglia lei, col suo bastone lui. Salutano cordialmente se si accorgono che li stiamo osservando.
Rientriamo nel traffico che avevamo ormai dimenticato, ma anche l'autostrada, di notte, ha il suo fascino e tornare, ormai stanchi, ci sembra solo il giusto riposo per prepararci ad un'altra piccola partenza.


Le foto di Tellaro le trovate qui
* Montale, Verso Tellaro