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27 febbraio 2008

Paese d'altri tempi e d'altri cuori

Ad Agugliano (e Polverigi), in questi giorni, c'era una nebbia che non confondeva il ricordo, limpido a distanza di più di sessant'anni. Con gli amici della "Guglia" (vi ricordo che è in scadenza il Premio Nazionale di Poesia di cui trovate ogni informazione qui) abbiamo scovato uno "stagnaro", uno di quei mestieri antichi di cui sopravvive solo l'immagine proiettata negli occhi degli ultimi pensionati. Un signore con basco e gilet ci ha aperto la sua vecchia bottega dove conservava ancora vecchi oggetti vivi a dispetto della modernità e impolverati dal disuso. Il prete per scaldare il letto, le brocche che le donne usavano per andare alla fontana a prender l'acqua, il caldaro di rame rubato alle grondaie martellato centinaia di volte, quando il materiale è ancora caldo, e tutto decorato, come se la necessità, invece di distruggere la potenza della fantasia la alimentasse di un fuoco che nessuna miseria può spegnere. Il "calderaro" ci ha raccontato un mestiere tramandato per generazioni, che lo spreco ha distrutto, un paese come una grande famiglia che via via scompare in un mare indefinito di facce i cui tratti sbiadiscono nell'assenza di un cenno di saluto. Oltre l'arco e su, su per ripide scale di marmo abbiamo spezzato la calma del suo appartamento col focolare acceso, ad affacciarsi sulla vecchia piazza, rubato l'anima degli sguardi, degli oggetti, delle parole con un mostro meccanico dal grande occhio di vetro. Sua moglie riattizzava il fuoco e spolverava per noi vecchie statuine in rame che raccontano storie a metà perse nel tempo e l'amore per l'unica cosa che non mancava mai: il vino che, bevuto in grandi quantità, insieme ad un pò di polenta, era l'unico modo per riempire la pancia e di cui rimane traccia nel bicchiere di fresco frizzantino sorbito al bar al posto del caffè. Amori di nonno.
Poi mani venose con riccioli di gesti eleganti hanno disegnato cappelletti fra uova, carne e farina e cuori induriti dalla guerra si sono sciolti a distanza di più di sessant'anni a condividere un ricordo pesante come un macigno. Ma queste sono voci e immagini che le mie povere parole non possono sporcare di descrizioni. Appena potrò farò in modo che siano direttamente loro a raccontare.

Giuseppino, ogni promessa è debito. Aspetto di farmi contaminare da Agugliano ad occhi spalancati ancora un pò.

18 febbraio 2008

Invito a Ferrara


Golosi siamo a Ferrara per l'apertura della mostra "Mirò: la terra (visitabile fino al 25 Maggio). Ci immergiamo in un vitale mondo rurale fin dalle prime tele dell'artista catalano che ci accompagna in un viaggio per tappe: da una parte lo sviluppo della sua pittura, attraverso il surrealismo e la guerra, dall'altra un viaggio contrastato dalla nascita, alla sessualità, verso l'anzianità e quindi la morte raffigurata in decomposte teste di toro e mostri a spaventare stormi di uccelli. Osserviamo la realtà cedere il passo a una fantasia energica e affollata, il pennello andare a intaccare materiali poveri di spessore sempre maggiore, il corpo rappresentato farsi corpo agito in immensi affreschi e tele. Immaginiamo l'artista ormai anziano muoversi in mondi di colore a cercare di frenare l'avanzata incontrastabile del nero sui suoi blu stella, schizzare la tela superando la rigidità cadaverica di un mondo fantastico ma pur sempre regolato, allungare il braccio a cercare ancora di violentare la tela con un'azione energica. Tutto quello che rubiamo con lo sguardo ci ricorda intimamente la materia, quadri a far germogliare semi di idee, sperma di idee a fecondare il ventre di una donna. Terra madre. Terra contadina.
Per scaldarci in questa autentica giornata d'inverno un orologio di formaggi e un assolo di caffè.
Ferrara, splendida, apre il cielo grigio al sole e il duomo nudo si veste di luce, sovrastato d'azzurro. Senza fretta ci lasciamo proteggere il passo dai portici delle vie del centro ricamate da musiche d'anteguerra suonate con un vecchio giradischi da un uomo anziano, che ci sorride la sua graffiata musica senza denti. Come insetti sfuggiamo il sole e c'infiliamo in via degli archi. Scopriamo la vanità di un castello medievale che si maschera da palazzo rinascimentale, ornandosi di balconcini e segreti giardini da cui gli estensi potessero spiare la vita di strada.
E, come se ci si potesse arrampicare sulla vetta ultima della felicità, come se il caso giocasse a scacchi col nostro destino, per le vie di Ferrara ritrovo Agugliano intero (gita di marchigiani in terre romagnole). Incredula comincio a vedere visi familiari e fioriscono progetti già seminati, storie, abbracci, condivisione. Sotto il minaccioso braccio del Savonarola mi sento parte di una famiglia e sento un pò della mia terra, nel calore della mia gente, accompagnarmi verso un sole che, confine ottico, sparisce nel cielo senza accarezzare la pianura, come se fosse ansioso di cedere spazio alla luna, al domani che, oggi, vorrei non fosse.

Pochi scatti a rubare tempo all'emozione


*Scorcio del castello: foto di Gabriele

15 febbraio 2008

Non mi stanco di condividerla

Vi prego, voglio cantarla (di nuovo) insieme a voi. E battiamo, con forza, con rabbia, con nuova speranza le mani sul tavolo. E, solo per stavolta, un pensiero talmente dolce, talmente dolce... per una madre che, da madre, non ha avuto la forza di crescere il nuovo raccolto: Genoveffa Cocconi.
Non aggiungo altro per non rischiare che anche le parole scritte comincino a tremare d'emozione.

09 febbraio 2008

Maratona laica

Lasciata Oblomovka sono tornata a correre. Ad alzarmi presto per andare incontro all'aria vergine di polmoni della prima mattina. A osservare dispersi ciuffi di lana come bandiere di resa oltre il filo spinato a materializzare un confine fra il luccichio dell'erba ingioiellata. Ho visto la stessa erba svestire l'abito da sera e arrendersi al sole. Per poter vincere sulla fatica nelle orecchie mi accompagnavano da Ivan Della Mea O cara moglie, prima ho sbagliato, dì a mio figlio che venga a sentire, ché ha da capire che cosa vuol dire lottare per la libertà ai Sex Pistols God save the queen her fascist regime it made you a moron a potential H bomb! God save the queen she ain't no human being there is no future in England's dreaming fino a Paolini e i mercanti di liquore Nella nebbia dell'alba si nascosero i cani, e chiusero gli occhi per non vedersi le mani. Negli occhi dei sette Cervi l'aurora si specchiò, dagli occhi fucilati il sole si levò. Sentivo concretamente i muscoli tendersi nello sforzo, conquistare un qualcosa d'indefinito passo dopo passo e mi accorgevo, centimetro su centimetro, dei confini interni del mio corpo. Mi chiedevo come avrei potuto abbandonare io quel piccolo sforzo, mentre le note che m'invadevano, che mi scuotevano erano un corteo di rabbia e dolore, un invito alla lotta. Così ho corso. Con l'idea di avanzare ad ogni passo. Di rifiutarmi di retrocedere tirata indietro da forze reazionarie e rabbiose. E correvo come se avanti a me ci fosse qualcuno a passarmi un testimone. Un testimone troppo importante per lasciarlo cadere.
Va bene un pò di sconforto nel vedere che in questo periodo l'elastico torna inesorabilmente indietro, ma non arrendiamoci, continuiamo a tirare, non c'è limite di rottura per quanto riguarda diritti, libertà, cultura, generosità.
Io ri-comincio una nuova, forte, stagione contro a partire da questo.

04 febbraio 2008

Il Teatro Olimpico di Vicenza: Il miracolo del Palladio


Percorriamo quattrocentocinquanta chilometri solo per lui, un gioiello delicatissimo di legna, mattone, gesso e stucco incastonato in una città del Nord, bella quanto fredda. Un gioiello immaginato nella testa barbuta del Palladio tesa verso la magnificenza degli antichi, tutta concentrata sullo studio di Vitruvio, fra le lunghe vesti con cui il suo corpo di marmo si ripara, ancor oggi, mentre un piccione inconsapevole gli si appoggia sulla spalla. Palladio che non ha neppure potuto godere della bellezza che aveva creato perché rapito dalla morte. Ma Edipo Re aveva bisogno di una degna scenografia, che venne realizzata ad opera di Scamozzi, in una prospettiva cittadina che taglia il fiato, ancora intatta, sopravvissuta allo scempio della guerra, pazzia che non è stata altrettanto clemente col suo fratello maggiore (solo per dimensioni), il Farnese. Il proscenio, bianchissimo, al limitare di questa lignea Tebe immortale, a far scorgere o nascondere prospettive diverse a seconda della posizione dell'osservatore, centro del mondo. Tutto il portico ornato di nicchie e statue che rappresentano chissà quali eroi antichi. Un cielo ricamato da nuvolette grasse e gentili a proteggerci la testa.


Ci siamo seduti sulla delicata cavea immaginando chi, e come, nel cinquecento, l'aveva popolata, se anche il suo cuore si fosse fermato per tutto il tempo della propria permanenza in quell'angolo d'infinito, ci sembrava di disturbare la bellezza e la contemplazione ammirata degli altri visitatori persino con il modesto click della macchina fotografica. Il nostro silenzio concentrato si appoggiava sulla corona di statue come polvere. La scarsa luce che filtrava dalle uniche finestre in alto, aiutata da scenografiche lampade, ci drogava di sensazioni.
Neanche il panorama dal monte Berico contornato dalle dolomiti innevate - dopo una veloce visita stitica al museo del risorgimento e della resistenza, trionfo di feticissimi cadaveri di ferraglia, più che avara memoria ritrovata superstite solo in alcuni vecchi scatti delle due guerre - ha potuto più meravigliarci. Neanche il centro storico con splendidi palazzi rinascimentali, abbracciato dal fiume. I nostri occhi erano sazi, il rumore della pioggia sul parabrezza, dolce melodia soporifera, chiamava a gran voce solo voglia di casa, odore di zuppa e ricordi.