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22 settembre 2008

Diario di una malattia

Con mani gelide dalle dita insensibili alle lettere che vado arbitrariamente scegliendo su questa tastiera nera, cerco di riordinare un intestino - che identifico con la grotta della casa di Monterubbiano, quella dei miei nonni - dov'è lo sfogo soddisfatto di cibi altamente nutritivi. La casa, fra l'altro, me la vendono, occorrerà trovare un intestino di ricambio, a rischio di non aver più luogo per le passioni digerite di cui mi nutro.

Ad intervalli regolari, nella mia vita, ho sentito bisogno di percorrere una strada costeggiata da canali impreziositi dalle ginestre. Dal mare fino ad altezza 463 m.; una bambina delle elementari sa già che non si tratta ancora di una montagna. Ho goduto ad affacciarmi oltre la soglia di una delle chiese abbandonate di questo borgo dell'entroterra, sul cui pavimento polveroso, dacché io possa ricordare, giace una campana. Un batocchio di fantasia la percuote per assaggiarne la nota grave. Violare il portone pesante a guardia del quale sono poste, da sempre, vecchiette a ricamare.
Sono nomade ed emigrata, ma ho un paio di radici ben piantate, se mi allontano per troppo tempo le sento tirare.
Quando ho visto il cartello "vendesi" sulla porta della casa ora disabitata di cui possiedo ancora le chiavi, l'ho subito accettato: come ci si arrende alla notizia di una malattia senza cura. Mi sono istantaneamente rassegnata, non ho avuto l'abituale scatto ideale che mi porta a ricusare l'ingiustizia, a guerreggiare per le cause perse. Ma, papà, stavolta non mi sono andata a sedere fra i cipressi che proteggono ancora il tavolino di pietra sul quale nonno mi insegnava a giocare con la fantasia e poco altro: pietruzze, foglie, strobili. Non ho avuto il coraggio di guardare il lago di cielo che creano gli alberi addossati a cerchio l'uno all'altro aspettando, ansiosa ed eccitata, che vi si andasse ad affacciare il sole. Uscire sulla terrazza che dà sull'infinito, appoggiare al panorama uno sguardo che nei giorni più limpidi (i più sereni) oltrepassa i confini - più o meno lo stesso infinito impedito agli occhi e permesso alla fantasia dalla siepe a Leopardi - è stato come vedere per l'ultima volta la bellezza, sentire per l'ultima volta gli occhi attaccati al cuore, scordare il suono della tua voce che mi sussurra "fino al Gran Sasso". Non ho dormito, perché ho ascoltato per tutta la notte: nel buio - illuminato da stelle non impedite nel loro splendore dalla luce dell'uomo - il vero silenzio, non il rombo di un'automobile; all'alba un gallo, un cane, il suono musicale dei ciottoli del borgo scossi da una carriola carica accompagnato dal passo pesante di un uomo che indossava stivali; a giorno fatto una donna che batteva i panni. L'udito era una dimensione che mancava al mio ricordo ora completo, definitivamente e solo memoria nel momento in cui staccheranno le fotografie di quando eravamo piccoli e della tua laurea in medicina - la prima di una famiglia contadina - dai muri. Prigioni di un'anima di luce sbiadita. Non vedrò più i miei dolci fantasmi nel riflesso della pendola, non sentirò l'odore umido della polenta e dei rametti di origano secco e stampa su fogli di giornale.
Ho cercato a tastoni nel buio la presa di corrente che serve ad illuminare la grotta. Papà, non sento più l'intestino.

05 settembre 2008

La generazione che si vorrebbe non ci fosse. Ovvero restituiteci memoria e futuro.

Mi siedo a raccontare con occhi e orecchie pieni del gusto intenso di questi giorni. Le pagine del mio taccuino nero di nuovo ferite da segni profondi, una grafia che, da sempre, ha preferito il tratto spesso e pesante alla velocità, pur concedendo così molto spazio al bordo pagina, dove i pensieri più autentici, quelli che non si dimenticano, sono scritti nell'aria che respiriamo e gli altri si dissolvono senza delitto se non quello del puro citazionismo, dello sfoggio culturale.
Sono tornata dal festival della mente di Sarzana con un cesto pieno di impressioni che non si possono liquidare in poche righe (a meno che non si trasformino in aforismi), ma a cui spero, col tempo, di trovare la giusta collocazione.
A Mantova, invece, mi sono dovuta scontrare per l'ennesima volta con un argomento che, ultimamente, riempie tante bocche a cui piace sfamarsi con un'aria - io credo - ben diversa da quella che circondava il mio taccuino: "aria fritta".
Stavolta era il turno di Scalfari che era al festival della letteratura a presentare un libro di Heisenberg: "Fisica e oltre", un testo nel quale fisica e filosofia si contaminano e si fondono. A parte le critiche più o meno ovvie che chiunque fosse stato presente può portare all'organizzazione dell'evento (un timer che cronometrava una mezz'ora di acciaio che neppure parole blindate di senso avrebbero potuto sfondare) Scalfari si è attaccato alla penosa presentazione (due ragazzine che leggevano tre parole a testa neanche fossero Cip e Ciop) per portare la solita critica alla generazione dei giovani. Francamente, da giovane, sono stanca di gente che si riempe la bocca di (parziali) conseguenze senza indagarne le cause. Ricerca che, fra l'altro, non prevederebbe di utilizzare strumenti di fisica classica per studiare un sistema di fisica quantistica. Si continua - compiaciuti - ad urlare al fatto che sarebbe nata una generazione che non c'è (che non fa passeggiate di dodici ore per discutere di fisica e del creato in un castello per rimanere alle dichiarazioni di Scalfari). Io, invece, voglio ribaltare la questione e dichiarare che, in questo paese di gerontofili, la generazione dei giovani si sarebbe voluto che non ci fosse. Mi fa specie che padri, madri, nonne e nonni continuino a dichiarare (in televisione, nei bar, sui giornali, a incontri sul principio d'indeterminazione) che i giovani sono una classe di sbandati, dediti solo al bullismo senza, innanzitutto, pensare che quegli stessi giovani sono i loro figli, i loro nipoti. Se fosse (del tutto)vera la situazione che dipingono i responsabili sarebbero, dunque, loro stessi.
Di giovani, in effetti, alle conferenze che ho seguito ce n'erano pochi.
Ma quello che tengo a dire è che se una generazione ha dei problemi (culturali) è la società ad essere malata e la nostra, oltre ad essere malata, è compiaciuta di esserlo perché le poltrone, in questo modo, continueranno a scaldare gli stessi sederi e gli introiti saranno sempre più alti (fino a che non finirà la rendita, ovviamente, ma questo riguarda il futuro che siamo incapaci di vedere: questo sistema economico non potrà durare per sempre). Un liberale più di ogni altro dovrebbe averlo presente a rischio di confondersi con un liberista... al punto che mi chiedo se l'ateismo ruggente - e lo dico da atea - non serva ormai che a frenare l'ultimo nemico del mercato: quello religioso. Un editore che butta sul mercato quintali di inutile carta stampata non può dichiarare che non ci sono giovani scrittori di talento, perché gli stessi sono affogati sotto quei quintali di alberi sacrificati al consumismo. Un insegnante che tiene una cattedra fino a 90 anni non può dichiarare che non ci sono giovani docenti o lamentarsi di avere cattivi studenti se è la struttura che non funziona, se i mezzi di comunicazione di massa bombardano di pubblicità perché il nostro sistema economico ha bisogno di consumo sfrenato per sostenersi (e la cultura è fuori dal mercato tant'è vero che vive di beneficenza statale o privata).
La mia è una generazione a cui hanno rubato i ricordi oltre che il futuro. Il nuovo è il cibo ingurgitato ed espulso prima ancora di essere digerito di cui ha fame il capitalismo. Agli oggetti non ci si affeziona, perché gli oggetti non si riparano, non invecchiano, non assumono i difetti che sono il cuore del sentimento umano. Come il precariato ha distrutto il futuro dei giovani, la globalizzazione distrugge il passato. Ci hanno insegnato a non parlare in dialetto e ad imparare l'inglese e ci hanno tolto la capacità espressiva. Ci hanno spiegato che studiare serve a far carriera e hanno distrutto la cultura, il piacere della lettura, l'allenamento alla curiosità.
La conclusione la lascio al linguaggio dell'ideologia, che questa società liquida sempre più spesso come una cosa, appunto, "da giovani": Signori adulti che giudicate senza giudicarvi... sia che lo facciate perché vi fa comodo o perché vi compiace o perché vi lasciate ingurgitare il pensiero dall'unica, grande, monodirezionata opinione pubblica, non siete altro che una banda di reazionari decisi a uccidere una generazione, perché ogni nuova generazione prevede il cambiamento!


Jan Švankmajer. Food - Breakfast (1992)

01 settembre 2008

Appunti. Maschile e femminile - Héritier

Sono una donna che abortisce le idee ancora prima che siano state concepite. Di conseguenza la mia mente è affollata di pensieri nati morti. Questo fatto ha un lato positivo: gli stimoli - seppure incompleti - mi servono a dar continuamente in pasto alla mia mente cibi che non saranno digeriti. La fame, insomma, rimane sempre.

Una questione di liquidi

Immagine di Maschile e femminile

L'immagine femminile a livello storico, epico, sociologico, antropologico, è qualcosa che stimola particolarmente questo mio insano appetito. Qualche settimana fa ho mangiato Maschile e femminile, il pensiero della differenza. Trattasi di uno dei lavori dell'Héritier, allieva di Lévi-Strauss, nonché una delle figure più interessanti per quanto riguarda il campo di studi dell'antropologia contemporanea. Attraverso l'analisi dei sistemi di parentela di varie popolazioni del mondo, l'Héritier acquisisce gli strumenti per un'indagine critica del pensiero della differenza.
Argomento centrale della nascita del pensiero della valenza differenziale dei sessi sarebbe dunque l'opposizione controllabile / incontrollabile inscritta nel funzionamento biologico. Più che conseguenza di una fragilità corporea, la differenza è una necessità del sesso maschile che si sente incapace di controllare la riproduzione. Già Aristotele prova questa presunta inferiorità della donna nell'incapacità dell'essere femminile di controllare la perdita sanguigna, perdita che invece nel maschio è voluta (caccia, guerra... situazioni cercate). Secondo il filosofo greco solo l'uomo ha la capacità di cuocere il sangue e trasformarlo in sperma, la donna, per il fatto di avere le mestruazioni, non può compiere questo atto (situazione che viene fatta dipendere dal calore corporeo). Questi elementi vengono, tramite la cultura, trasferiti nell'ordine sociale. Il dominio maschile, dunque, deriva da questa categoria conoscitiva, trasmessa per generazioni (interessante notare il fatto che l'idea che il sangue venisse prodotto dalle ossa era già presente fin dai tempi dei sumeri, che distruggevano le ossa dei nemici per distruggerne la storia, cioè il seme. Idea in seguito certificata dalla scienza). Studiando i sistemi di parentela patrilineari e matrilineari l'Héritier arriva ad individuare una ineguaglianza strutturale che fa sì che, nei sistemi matrilineari crow, la struttura si inceppi e non tutti gli uomini possano essere cadetti per tutte le donne del loro gruppo di filiazione, cosa che non accade mai nelle strutture speculari patrilineari. Il rapporto di ineguaglianza non è biologicamente fondato: questo prova che ogni sistema di parentela è una manipolazione simbolica del reale.
Sesso forte, sesso debole non sono altro che termini dell'ideologia.
Una parte del libro riflette, inoltre, sull'atteggiamento delle società nei confronti dell'infertilità femminile e bisogna annotare che tutti i casi di infertilità nelle popolazioni studiate (compresa la nostra, fino alle ultimissime scoperte scientifiche) erano imputate alla donna (donne spesso tacciate di stregoneria o ritenute pericolose per la comunità) grazie a sistemi di filiazione nei quali all'uomo era garantita sempre una discendenza, anche quando era, in effetti, sterile. La sterilità, infatti, non era mai vista come un qualcosa di ordine fisiologico. L'uomo dà la priorità all'ambito sociale su quello biologico, costruendo categorie culturali a seconda dei propri bisogni. L'Héritier a questo proposito cita una sentenza samo che dice è la parola che fa la filiazione, è la parola che la sopprime. Con vari esempi si arriva alla conclusione che la filiazione non è mai un semplice derivato della generazione. Questi studi sui sistemi di parentela, oltre a stabilire l'errore dell'ipotesi diffusionista, spiegano il modo in cui la differenza si è tradotta in diseguaglianza. Per questo, fra gli altri, per la Chiesa cattolica ufficialmente vi è uguaglianza ma, siccome Cristo sceglie di incarnarsi in forma maschile, alle donne è vietato essere ordinate sacerdote. Per questo i bastioni della diseguaglianza sono contraccezione e aborto, la riappropriazione del corpo della donna. L'idea è quella che il seme veicoli tutta l'identità, di conseguenza alle donne era/è negato lo statuto di individui. Il potere riguarda dunque il controllo (la negazione del controllo) della riproduzione biologica e sociale.