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29 ottobre 2011

L'ultimo zingaro

Autunno tempo di scrittura. Elaboro strategie sempre più sottili per ritagliarmi angoli.
La casa è calduccia, Pablita dorme sul termosifone e quando la guardo ricambia la mia apprensione di mamma gatta lanciandomi un'occhiata a mezz'occhio "sono qui per il tuo e il mio piacere, sto bene e intanto che ci sono mi sto anche meritando la ciotola, ti pare?".
Ieri sono partita per Milano Rogoredo. Avendo di fronte a me un'oretta di autostrada mi sono messa comoda ben cacciata dentro ai miei stivaletti verdi pelosi nonostante i diciotto gradi (eh, ma io l'aspetto con ansia il vecchio dignitoso inverno e intanto mi preparo) e ho acceso l'autoradio sintonizzandomi su Radio Tre, emittente che, nonostante qualche caduta, mi ha più volte salvato la vita, sempre più spesso devastata dallo sgombro in scatola.
- Concerto di Klezmer - intervista alla direttrice della libreria delle donne di Milano - (al ritorno) concerto per ciabattino e bottaio -
Oltre lo spartitraffico ho sorriso al passaggio di due camion scassati degli "Jommi" che viaggiavano nella direzione opposta alla mia, che viaggiavano verso casa.
La destinazione del viaggio era il campo nomadi di Rogoredo.
Alyosha mi aspettava sorridente all'uscita della metropolitana, era una bella giornata di sole e avevamo da raccontarci più di quello che il tempo ci avrebbe concesso.
Non appena individuate le prime roulotte un simpaticissimo bastardino tutt'orecchi ha cominciato a correrci dietro segnalando a più non posso la nostra infrazione nel perimetro del campo.
Mentre noi, un po' spiazzati, ci chiedevamo dove dirigerci si è affacciata una signora, attirata dai lamenti del cagnolino, più spaventato che aggressivo.
Siamo così stati introdotti al vecchio patriarca.
L'ultimo zingaro indossava pantaloni a costine, una camicia a scacchi e un vecchio cappello sdrucito. Sulla tesa del cappello aveva una testa di cavallo di metallo, precisa visualizzazione dei suoi ricordi più cari.
Siamo stati in piedi per ore - di fronte al neonato Museo del viaggio intitolato alla memoria di Fabrizio De Andrè - ad ascoltarlo raccontare. Ogni mia singola sensazione si concentrava sul suono della sua voce, sulle sue pause di riflessione, mi è stato assolutamente impossibile l'uso - pure così essenziale in quel momento - del registratore vocale o, peggio, della macchina fotografica.
Non ho mai incontrato nessuno che fosse consapevole, come lui ha imparato ad esserlo non senza aver pagato il prezzo più caro, della propria identità.
Il signor Bezzecchi ci ha raccontato i suoi viaggi in carovana, le nottate in spiaggia a riscaldarsi vicini al falò (quando ancora il mare era loro), le lunghe gonne delle donne a portare la primavera nell'inverno delle città. La stessa gonna che adesso ha proibito d'indossare a sua moglie, accusata ingiustamente di furto in quanto riconosciuta come zingara.
Allo scomparire della civiltà contadina e con l'avvento dell'automobile non è più possibile essere zingari, se non in riserva, se non nel campo, nel piccolo campo, che i campi grandi sono ghetti di piccola delinquenza e disperazione.
Ai suoi tempi quando una carovana si fermava in un paese, il paese era protetto. I contadini ti davano da mangiare. Rubare era peccato, era proibito dalla legge severa del gruppo, è concesso rubare solo per fame.
Della donna si aveva la massima considerazione e i rapporti erano, nei fatti, paritari. Un rom difende tutte le donne, le zingare come le gadje. Fare un torto ad una donna era il crimine più grave che si potesse commettere e quello sanzionato con la massima durezza, dato che "la donna ragiona col cervello, ma l'uomo, si sa, ragiona col sesso".
Il signor Bezzecchi ha capito che i suoi figli non avrebbero più potuto essere zingari la prima volta che ha incrociato un guard-rail. Il cavallo si è impennato per la paura di trovarsi di fronte ad un oggetto sconosciuto, e per poco non sono stati investiti da un tir. Da quel momento in poi le tangenziali si sono moltiplicate, la velocità ha distrutto la lentezza, i vecchi mestieri artigiani sono scomparsi, non c'è più spazio per esseri zingari.
Suo zio è morto ad Auschwitz e suo padre dalla guerra non è più tornato.
A quel punto, tornato esso stesso dalla deportazione, ha preteso che tutti i suoi ragazzi, ben otto, trovassero un lavoro - perché in questa società se vuoi essere uno zingaro devi essere disposto a rubare, quindi non si può più essere zingari - ha cercato di mandarli via dal campo, ma tanti di loro sono rimasti, coi figli e i figli dei figli, condannati in una posizione liminale: non più zingari, mai accettati dai gadji. Una comunità solidale di una quarantina di persone, una grande famiglia. Un luogo in cui tornare e trovare protezione quando si perde il lavoro, quando si perde la casa, quando si perde la dignità. L'unico luogo veramente sicuro della periferia milanese.
Ho ascoltato rapita una storia di miseria, di razzismo, di sgomberi, di privazioni di ogni tipo, ma anche dell'ultima forma di libertà. Una storia che mi assomiglia, riflessa nei miei tratti somatici.
Di fronte alla resa, all'alzata di mani ho urlato al crimine, ho preteso il dovere della resistenza. Quando anche la cultura zingara sarà scomparsa non avremo più nulla che valga la pena di essere difeso se non riusciremo ad aprire fratture, a continuare a produrre sub-cultura, quella pasolinina, per intenderci senza allungare ulteriormente questo sfogo, senza voler condannare la dignità di un urlo a toni striduli, che possano infastidire qualcuno, uscire dai margini.
Il piccolo Museo è nato e ora prova ad alzarsi e a camminare. L'archivio (strano materiale scritto per una comunità di cultura orale), la carovana anni '50, gli amici che passano a portare un saluto, a vedere se possono dare una mano adesso che le cooperative gliele hanno chiuse.
Certo, il Museo stesso è la prova della resa, una sorta di mummificazione della cultura, una presa di coscienza del genocidio culturale. Ma è anche un tentativo di difesa del campo, della comunità, della famiglia; una risposta all'ignoranza, al razzismo, all'omologazione, al vuoto.